Dialogo
con la Dea Atena
(in onore della Dea greca dagli occhi azzurri)
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Siamo schierati in
circa sessantamila atleti ad Atene, al via delle tre distanze olimpiche
della maratona, dei 10.000 e dei 5.000 metri.
Tra le migliaia di iscritti, forse duecento sono venuti per denaro o
comunque pagati da federazioni e sponsor per dare lustro all’evento.
Gli altri cinquantanovemilaottocento hanno sborsato fior di quattrini
per arrivare qua da ogni parte del mondo, alloggiare e nutrirsi, col
solo obiettivo di concludere la propria fatica nel tempio mondiale
dell’olimpismo: lo Stadio Panathinaiko di Atene, costruito mezzo
millennio prima che il mondo conoscesse Gesù Cristo, sede dei Giochi
Panatenaici celebrati in onore della dea Atena e, più recentemente,
sede dei primi Giochi Olimpici moderni, svoltisi quando, per volere del
Barone De Coubertin, si rinnovarono il mito e lo spirito di Olimpia.
Il sancta sanctorum dello sport.
Il ginocchio balordo si è risvegliato e mi fa un male bestia; sto
insieme ad analgesici, ginocchiere e taping.
Non so neppure se partire; l’idea di farmela a palla per i prossimi
chilometri mi fa paura e temo di combinare un casino ed aggravare una
situazione già compromessa dopo il malanno di quattro anni fa.
Ma rinunciare, no, come si fa? L’agonismo non sarà salute, ma di certo
è una malattia.
E va bene Atena, dea della guerra e delle Olimpiadi, tanto lo so che mi
vedi: qua siamo a casa tua…
Veniamo a patti: prometto che quando tornerò a casa cercherò di fare il
bravo e di trattare bene questo ginocchio malandato, ma tu adesso dammi
un aiutino e fammi arrivare in fondo al tracciato che ho qua davanti.
Eddai, Atena: hai corso dietro per vent’anni ad Ulisse e lo hai
riportato ad Itaca dalla sua Penelope dopo migliaia di miglia di
peregrinazioni in mare; ti chiedo solo un po’ di chilometri, niente
Calypso, niente Nausicaa, niente Circe, niente belle guaglione
travestite da sirena, niente fiori di loto, niente di niente, alla mia
età, poi…
Fa solo che questo dannato ginocchio tenga ancora un po’.
Fammi solo arrivare al Panathinaiko e permettimi di vedere ancora una
volta da atleta la sua forma, che sembra un grande abbraccio che
accomuna vincitori e vinti e che esalta il caleidoscopio di lingue e di
colori della pelle di migliaia di atleti provati da fatica e sudore.
Non sarò un eroe, come il mitico figlio di Laerte, ma dammi un occhio
eh? E poi, dai… italiani, greci, una fazza, una razza… siamo quasi
compatrioti, no?
Fammi solo resistere un po’ di chilometri; in cambio goditi le migliaia
di pugnalate di dolore che prenderò nel ginocchio sul mio cammino; sono
tutte dedicate a te, una per una.
Mi chiedi se me lo merito?
Oh, guarda che anche il tuo Ulisse non era propriamente uno stinco di
santo e io, rispetto a lui, nella mia lunga carriera nel Nordic
Walking, di cavalli di Troia ne ho avuti tanti contro e, come un vero
idiota, ci sono cascato ogni volta, tanto da fare impallidire Priamo
per quanto riguarda la dabbenaggine.
No, no, per carità… d’accordo che sei la dea della guerra, ma sta
tranquilla, non cerco vendetta alcuna: non è il caso di precipitare
tutti gli autori degli inganni nell’Ade… tempo al tempo.
Vabbé, tocca a me: allora mi fido, eh, Occhicerulea? Affare fatto, eh?
Vado, eh?
Vado.
Il resto è la solita storia: fatica, dolore, voglia di fermarsi e la
contemporanea certezza che non mollerai mai, costi quel che costi.
E’ la solita storia di mille e altri mille atleti intorno a te, tutti
con un unico nemico, il cronometro, avversari e nel contempo fratelli,
così come lo erano gli schiavi nelle galere, uniti dalla stessa catena.
Chilometri che non passano mai, tempo che passa troppo in fretta,
rifornimenti da fare prima di arrivare ad avere sete e la sensazione
che le energie stiano finendo.
Ogni volta la stessa litania.
E poi, non mi sembra vero, ecco laggiù l’ingresso del Panathinaiko;
poche centinaia di metri e ci sarò.
Gongolo, anche se ho la vista e la mente annebbiate dal dolore; mi
sembra di intravedere a lato del tracciato, tra il pubblico che grida
“bravo” a gran voce, una giovane donna con gli occhi azzurri,
vestita da pastore, che mi sorride con lo sguardo.
Giusto il tempo di pensare che caspita ci faccia un pastore
all’ingresso dello stadio e mi echeggia nella mente un flash degli
studi superiori:
“𝑃𝑎𝑙𝑙𝑎𝑑𝑒 𝑎𝑙𝑙𝑜𝑟𝑎,
𝐷𝑖 𝑝𝑎𝑠𝑡𝑜𝑟𝑒𝑙𝑙𝑜 𝑑𝑒𝑙𝑖𝑐𝑎𝑡𝑜 𝑖𝑛 𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎,
𝑄𝑢𝑎𝑙𝑒 𝑢𝑛 𝑓𝑖𝑔𝑙𝑖𝑜 𝑑𝑖 𝑅𝑒 𝑚𝑜𝑠𝑡𝑟𝑎𝑠𝑖 𝑎𝑙
𝑔𝑢𝑎𝑟𝑑𝑜,
𝑆’𝑜𝑓𝑓𝑒𝑟𝑠𝑒 𝑎 𝑙𝑢𝑖”
(𝑂𝑑𝑖𝑠𝑠𝑒𝑎 – 𝐿𝑖𝑏𝑟𝑜 𝑋𝐼𝐼𝐼)
Ma guarda un po’ cosa mi salta in testa; ricordi di cinquant’anni fa
abbondanti.
Poi trasalisco… mamma mia: mi ricordo bene come andò a finire.
𝑂𝑝𝑟𝑎 𝑓𝑢 𝑞𝑢𝑒𝑠𝑡𝑎 𝑑𝑒𝑙𝑙𝑎 𝑇𝑟𝑖𝑡𝑜𝑛𝑖𝑎
𝑏𝑒𝑙𝑙𝑖𝑐𝑜𝑠𝑎 𝑑𝑖𝑣𝑎,
𝐶ℎ𝑒 𝑞𝑢𝑎𝑙 𝑝𝑖𝑢̀ 𝑎𝑔𝑔𝑟𝑎𝑑𝑎 𝑎 𝑙𝑒𝑖, 𝑡𝑎𝑙𝑒 𝑚𝑖
𝑓𝑜𝑟𝑚𝑎:
𝑂𝑟𝑎 𝑢𝑛 𝑐𝑎𝑛𝑢𝑡𝑜 𝑚𝑒𝑛𝑑𝑖𝑐𝑎𝑛𝑡𝑒…
(𝑂𝑑𝑖𝑠𝑠𝑒𝑎 – 𝐿𝑖𝑏𝑟𝑜 𝑋𝑉𝐼)
Uella, Atena, non facciamo scherzi, eh?
Vabbé che ti ho parlato male del tuo Ulisse, ma adesso mi fai tagliare
il traguardo travestito da canuto mendicante?
Che figura… speriamo che Penelope sia in tribuna con una giacca della
tuta decente da passarmi, se no le foto per i social come le faccio?
Comunque sono arrivato, dolorante ma mai domo!
Νενικήκαμεν, nenikèkamen: abbiamo vinto, o almeno ce l’abbiamo fatta ad
arrivare!
Grazie Atena!
So che sei solo una figura mitologica, ma alla fine il tuo pensiero mi
ha portato al traguardo.
Caso mai esistessi davvero, mi daresti l’amicizia in Facebook?
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